giovedì 10 settembre 2015

Alla scoperta della Borgogna - COTE D'OR BLANC



BORGOGNA - COTE D’OR BLANC

Pronti per ripartire per un nuovo viaggio e tornare virtualmente nell'incantevole Borgogna con la curiosità e l’interesse di sempre ma stavolta rivolti verso l’altro colore: oggi ci tufferemo a volo radente sui bei filari di chardonnay dei dintorni di Beaune, degustando alcuni dei bianchi rappresentativi della zona e adatti ad un primo contatto.
L’atmosfera è frizzante e ci si prepara ad introdurre una tipologia di vini tra le più apprezzate dai “bianchisti” di tutto il mondo: floreale delicato ed elegante, agrumi affiancati a frutta gialla, mineralità e sapidità bilanciate che si fondono al meglio nelle note tostate e vanigliate del legno utilizzato accuratamente da generazioni.
Le bottiglie, refrigerate a dovere dalla mattina, rivelano purtroppo nel primo pomeriggio la spiacevole sorpresa che, pur facendo parte della poesia legata al vino, rientra in una lotteria senza premi che nessuno vorrebbe vincere: il sentore di tappo. La malasorte poi, munita di occhi grandi, regala la bella puzzetta fungata a due bottiglie gemelle delle tre a disposizione per quel prodotto. Ma in questo caso la mano espertissima del confratello Armando riesce comunque a dispensare una dose per tutti i partecipanti.
Ecco quali sono state le principali riflessioni che la serie di sei vini a seguire ha fatto emergere.
Il primo vino di questa sera è Saint Romain "En Chevrot" 2012" di Emmanuel Giboulot. Il domaine pratica da oltre quarant'anni il regime biologico mentre ha abbracciato la biodinamica da poco più di quindici anni. L'azienda è proprietaria di dieci ettari di vecchie viti di cui sei sul comune di Beaune. Lo stile di Giboulot è assolutamente centrato sulla freschezza e sulla tensione gustativa dei vini. Occhio puntato sulla maturazione delle uve, rese bassissime e fermentazione spontanea in barriques sono le semplici regole di questo domaine. Giboulot costituisce un vero e proprio porta-bandiera del credo biologico in Borgogna e di recente è stato protagonista di una vicenda giudiziaria che ha fatto il giro della Francia, poiché si è rifiutato di effettuare dei trattamenti obbligatori per legge contro la potenziale flavescenza dorata in alcuni suoi vigneti ed è stato condannato a una pesante sanzione pecuniaria rischiando anche fino a sei mesi di prigione.


E’ questo un vino di carezzevole freschezza e di pronta beva e godibilità: semplice ma non banale, pulito e acido il giusto con i fiori bianchi delicati non sopraffatti dai leggeri sentori di legno. Le non spiccate doti di mineralità e complessità fanno apparire il futuro un po’ incerto. Da bere ora.

Dato che il terzo vino esce dalla stessa mano di Giboulot mi permetto di descriverlo prima del secondo: è questo un “Côte de Beaune - Combe d'Eve – 2012”. Al primo impatto risulta intenso ma non impattante, più complesso del primo fa presagire maggiore stoffa anche in bocca: un vino verticale nonostante le note burrose e vanigliate delle barriques probabilmente di primo passaggio. Fedele al territorio nei tipici sentori agrumati, buona anche la mineralità e la sapidità che ben equilibrate alla freschezza potranno donare più carattere a questo prodotto tra qualche annetto.



Il secondo campione invece è il “Hautes Cotes de Beaune Bellis Perennis 2012" di Naudin Ferrand.


L’interprete dello stile del domaine è la signora Nadine che persegue una concezione di vino naturale dopo aver sperimentato negli anni novanta tecniche avanzate di vinificazione. Oggi la vinificazione senza acidificazioni né filtrazioni avviene nel pieno rispetto del prodotto ottenuto dal fondamentale lavoro in vigna, lasciando le potenzialità del territorio libere di esprimersi al meglio. I Travasi avvengono per gravità, nessun lievito selezionato e poi affinamento sulle fecce fini. Ottiene così vini che intrigano per grazia e delicatezza in controtendenza con i vicini delle Hautes Cotes più semplici e rustici. Il bel colore giallo dorato di questo 2012 svela subito freschezza giovane e barriques nuove: apre con toni morbidi di vaniglia e cocco per virare verso un leggero sentore vegetale umido. Già equilibrato e coerente in bocca, anche se non lunghissimo e complesso: questi caratteri miglioreranno sicuramente con qualche anno di affinamento in bottiglia.

Il quarto vino è un “Meursault Cuvée Tete De Murger 2011" di Patrick Javillier, un domaine di 10 ettari che dagli anni settanta cambiò registro proprio grazie al suddetto imprenditore e al suo stile peculiare: lunghi affinamenti sur lies, estrazione affidata all’antica pressa Vaslin e preferenza per le porosità delle vasche in cemento rispetto a quelle in acciaio. La percentuale di legno nuovo è, al contrario di quanto accade di regola, quasi azzerato nei grand crus (fermentati in pieces di secondo passaggio) ma la particolarità più intrigante è che egli compone i vini attraverso sapienti blend tra le varie botti, non vinificando i singoli climats. L’invecchiamento nelle barrique si protrae per 17-18 mesi e l’imbottigliamento avviene con una lieve filtrazione. 






                   
Questo Meursault 2011 è ottenuto dal mix di due vigneti: il primo, impiantato su terreni poveri nell’area della dominazione, apporta la giusta mineralità, il secondo di Volnay provvede allo spessore del corpo grazie ai suoi terreni argillosi su substrato vulcanico. I riflessi verdolini nel pieno giallo dorato anticipano qualcosa sulla giovane vita del prodotto, confermato poi anche in bocca: se al naso il legno è ben equilibrato ed elegante, la grassezza in bocca è lasciata solo alla forza alcoolica e ai toni burrosi. Manca quindi la complessità e l’equilibrio. La maggior dote a sorpresa sembra proprio la freschezza integra che fa ben sperare per il tempo che seguirà.

Come quinto vino si è proposto uno “Chassagne Montrachet La Romanèe 1er cru 2008” di Chateau de la Maltroye. L’antico edificio della cantina a volta risale al XV secolo anche se il domaine è stato acquistato dagli attuali proprietari negli anni quaranta. La proprietà comprende tredici ettari su Chassagne e due su Santeney; la produzione si assesta sulle sessantamila bottiglie annue (60% chardonnay e il restante pinot noir) con il 70% delle vigne adibite a 1er cru tra i più prestigiosi della AOC. Lo stile in vigna prevede l’utilizzo di mezzi meccanici come anche quello del cavallo e la vinificazione è assolutamente all’insegna del lutte raisonnèe, cioè l’uso ragionato della chimica utilizzata solo in casi di estrema necessità; le rese per ettaro sono molto basse per premiare la qualità delle uve. Il domaine utilizza due presse pneumatiche per la pigiatura, la fermentazione avviene dapprima in acciaio e poi in botte; la pulizia in cantina è maniacale e la fermentazione avviene a temperatura rigorosamente controllata. L’imbottigliamento dei vini bianchi avviene dopo dodici mesi di invecchiamento in barrique con leggera filtrazione. 


Questo vino è ottenuto da uve di un piccolo vigneto su una parcella sulla quale sorgeva un’antica villa romana, senza dubbio oggi uno dei più vocati climat della denominazione. Un fazzoletto di terra austero, calcareo e ricco di fossili, protetto alle spalle dal bosco di Chassagne. Il bel giallo dorato intenso invita all’olfazione: sui classici sentori avvertiti nei campioni precedenti si avvertono ora belle note di miele e nocciola, note vegetali e balsamiche sostenute anche dalla peculiare mineralità che ci si aspettava. In bocca sfoggia una grassezza e una persistenza degne del cru di appartenenza e dell’annata favorevole; il tostato elegante esce alla fine e affianca la mineralità già avvertita al naso. Equlibrato, fine, buono ora.

Si conclude con un "Puligny-Montrachet 2003" di Chateau de Puligny-Montrachet. Questo domaine appartiene alla famiglia De Montille, guidata fino a qualche decennio fa da Hubert, uomo vigoroso e di accesa personalità che produceva vini di carattere, quasi spigolosi, specchio proprio della mano del capostipite; nel 1983 il figlio Étienne, di ritorno dagli studi negli Stati Uniti, inizia la collaborazione con il padre e imprime gradualmente una direzione biologica all’azienda: oltre a prestare maggiore attenzione all’interpretazione dei millesimi e ad apportare uno stile meno ruvido, introduce la biodinamica nel 2001 portando avanti il lavoro del padre nel segno dell’autenticità, della purezza e dell’equilibrio nel produrre vino. Il metodo di vinificazione si può riassumere così: lunghe macerazioni, affinamento in barriques e imbottigliamento senza filtrazione; l’obiettivo della famiglia è ricercare vini in cui il ruolo principale non sia più giocato dal corpo, dalla materia e dalla fittezza, ma dalla tensione, il dinamismo e la profondità gustativa.


Quest’ultimo calice di un giallo dorato vivo e acceso, ci accoglie nell’eleganza di vaniglia, frutta secca e candita, fiori gialli delicati e un leggero sottobosco accanto ad un tenue sentore di frutta matura per poi svelare la mineralità adeguata e attesa. In bocca però si avverte quanto paventato da alcuni, cioè l’annata estrema e torrida non gli permette di esprimersi al meglio e la presenza di poca freschezza e forse troppo legno accentuano il calore dell’alcol riducendo quel bel finale lungo e pieno che non arriva. Qualcuno fa giustamente notare la vicinanza del vigneto all’appelation Meursault dal quale forse trae il carattere troppo legnoso e meno raffinato rispetto a quelli tipici invece di Puligny-Montrachet. Sicuramente però un vino di alta gamma e di buona struttura e complessità.
E’ stato bello stasera scoprire insieme quanto sia variegata e complessa la produzione dei bianchi di Borgogna anche non al top di gamma a scapito delle certezze che ognuno di noi aveva prima di iniziare la degustazione. Forse le descrizioni lette sulla letteratura a disposizione o le note salvate dalle precedenti esperienze personali poco rendono di fronte alla sorpresa gustativa, bella o buona che essa sia: l’eleganza stasera tocca Chassagne a scapito di Puligny e qualche piacevole nota ci è stata donata dai vini poco evoluti ma sinceri provenienti dalle “colline alte”, proprio quelle ingiustamente sottostimate a priori da chiunque si approcci a questo folle universo di sensazioni da condividere. Ci riserviamo ovviamente di approfondire il gusto personale di gran parte della Confraternita che magari rivolge il desiderio di un gran vino bianco verso altre zone e tipologie, magari della stessa Francia. Viene da pensare che l’utilizzo eccessivo del legno che si è fatto in tutto il mondo nei decenni passati abbia modificato l’esigenza di avere quelle sensazioni esasperate nel bicchiere, a volte pesanti e monotòne. Stasera i nostri “cugini” ci hanno ricordato come elegantemente e caparbiamente NON si seguano le mode e come l’élevage del prodotto affidato alle doghe tostate abbia un senso concreto e rivolto alla tradizione vera che rimane fedele a se stessa. Piaccia o non piaccia.

Pierluigi Aielli
(Addetto Stampa CdG)



Si ringrazia per la consulenza (e non solo) l'amico Francesco Bisaglia (www.borgognamonamour.it).

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