Dopo le
interessantissime serate dedicate alle prime due degustazioni dei vini di
Borgogna, la Confraternita del Grappolo torna a trattare prodotti del
territorio di appartenenza invitando una tra le più note aziende della regione:
pronti a raccontarci la loro esperienza e aperti alla nostra sete di curiosità
sono intervenuti Enrico Marramiero, titolare dell’azienda omonima, e l’enologo
Romeo Taraborrelli.
Moderatore della serata c'era il giornalista enogastronomo Massimo di Cintio.
I vini prodotti dalle
grandi aziende che dominano il mercato possono talvolta passare inosservati ad una
fetta di appassionati e addetti ai lavori o ancora, risultare a priori poco
interessanti e poco innovativi rispetto alle proposte dalle piccole realtà
emergenti, che negli ultimi anni stanno svolgendo un lavoro interessantissimo
nella nostra regione e non solo.
Invece le aspettative e
la curiosità sono state ripagate appieno da una tipologia di prodotto che
raramente può capitare sotto mano, o meglio, sotto al naso: un Trebbiano
d’Abruzzo con qualche decennio sulle spalle.
Infatti il principe
della serata è “Altare”, un Trebbiano creato quasi come esperimento, come ci ha
raccontato Taraborelli, che però dimostrò già dai primi anni di affinamento di
poter guardare ancora molto in là nel tempo. E’ questo il primo vino dell’azienda a
rientrare nella categoria dei bianchi fermentati in barriques nuove a contatto
con le bucce: l’enologo esprime la filosofia adottata con la frase “attaccare
l’acino”, ossia ottenere il massimo dell’estratto dalle bucce. Il periodo di
tempo della permanenza in quella fase non è stato ben definito in partenza e si
è lasciata la massima libertà di decisione conseguentemente agli assaggi in
cantina che svelavano il percorso del vino. I nostri ospiti hanno tenuto a
precisare quanto sia più semplice seguire un bianco del genere rispetto ad un vino
rosso: quest’ultimo, se rivela in botte di non avere le caratteristiche per
resistere al tempo e migliorare, precipita irrimediabilmente e quasi
improvvisamente verso livelli più bassi di qualità. I bianchi mostrano una
sorta di tenacia diversa, avendo una “fine” più lenta e graduale, rispettando
quasi sempre la fiducia nel miglioramento che viene dato loro.
Questa versatilità ha
permesso di anno in anno di fare la scelta più appropriata: il Trebbiano delle
ultime annate (2010 e 2012) ha trascorso ben due anni sulle sue bucce.
Ecco qualche
impressione carpita dall’aria attenta della sala.
Il vino si presenta
vestito di un bel giallo dorato, leggero e molto luminoso; l’intensità al naso
è pervasa da frutta gialla e albicocca essiccata con un leggero agrumato sul
fondo; si apprezza la finezza e l’eleganza del mix di toni morbidi di miele con
una fresca balsamicità di incenso. Al palato è esuberante con la sua grande
intensità e la sua attesa freschezza. Qualche nota minerale risuona sul legno,
presente ma non prevaricante.
2010
Il giallo dorato è
intenso e accompagnato da una spiccante limpidezza. Appaiono al naso le stesse
note dolci apprezzate nel vino precedente ma con meno sfaccettature vegetali;
predomina una nota di confetto che alla lunga forse stanca. Sul palato è forte
la sensazione alcolica quasi quanto quella della freschezza decisa; non spicca
però la lunghezza. Bisognerà attendere qualche annetto? Vedremo.
2007
Figlio di un’annata
caldissima e con forti piogge, appare in un giallo dorato tenue e limpido. Si
apre lentamente con note dapprima fruttate di pesca gialla e mango e poi vira
su toni intensi di zafferano e fieno. In bocca è fine: dritto nella sua
freschezza non eccessiva che accompagna la godibilità del sorso.
2001
Questo è il primo vino
che divide la platea in quanto le bottiglie per la mescita si rivelano
antitetiche: accomunate da un giallo dorato/ambrato si differenziano sia al
naso che nel cavo orale. In un bicchiere troviamo note olfattive quasi da vino
dolce e in quello affianco sfumature mentolate e di liquirizia. All’assaggio,
l’uno più morbido e l’altro più fresco e minerale, si ritrovano nel comune
piacevole sentore di zucchero filato (nota dell’enologo).
2000
Alla vista si continua
con l’intensità del giallo appena ambrato e limpido ma subito all’olfazione
sembra un po’ stanco: non intenso come i precedenti, apprezzabili alcune lievi
note di zolfo ben equilibrate dall’erbaceo all’inizio in ombra. In bocca è meno
caldo ma più avvolgente con una tipica nota mandorlata sul finale. A detta
dell’enologo potrà esprimersi al meglio tra qualche anno.
1999
Questo è il primo
campione che sembra rivelare quasi un cambiamento di stile. Ambrato leggero si
rivela pieno di sorprese: il fruttato/floreale avvertito nei primi vini è
sorretto da note di erba falciata e sentori tostati di caffè. Al palato svetta
per il suo equilibrio: intenso, pronto e godibile, con la presenza fine del
legno.
1997
In questo vino
l’ossidazione si impone e domina alla vista e all’olfatto; la freschezza residua comunque sorregge il
timbro mieloso e morbido con lievi sentori di idrocarburi e arancia amara. E’
un vino che ha dato il meglio di sé qualche anno fa’ pur essendo ancora molto
interessante, con un finale delicato a sorpresa.
1994
Alla fine della serie
non poteva mancare una risonante conclusione. Il colore lievemente ambrato
riluce splendidamente e avvicinandolo al naso si capisce che sono bandite le
banalità: note di torba lievi e fumose miste a floreale finissimo precedono i
sentori inebrianti di idrocarburi. Qualcuno lo definisce a ragione “tedesco”.
Al sorso è esplosivo con un nerbo incredibile di bella acidità. Un equilibrio (ri)trovato
dopo un paio di decenni. Da ricordare sicuramente.
Gli ospiti ci hanno
anche voluto omaggiare con due chicche prodotte dall’azienda: la prima è il
vino cotto “Livia”, un prodotto che ricalca le vecchissime tradizioni dei
paesini del nostro entroterra, dove i contadini serbavano un nettare
concentratissimo e delizioso prodotto dalla cottura del mosto, posto poi ad
invecchiare nella botte di famiglia che raccoglieva parte delle annate
precedenti. Intenso nelle sue note tostate di confettura e caramello, lo
abbiamo abbinato alla pasticceria secca fatta per l’occasione da mani amiche
espertissime; chissà come andrebbe su un formaggio erborinato? Da provare.
Il secondo prodotto è
una acquavite di vinacce di uve Montepulciano d’Abruzzo: morbida anche se un
po’ troppo irruenta sui toni erbacei che risalgono per via retronasale.
L’enologo Taraborrelli ci ha fatto notare come si riconosca il timbro del
Montepulciano, appena svanito l’impatto alcolico.
La serata si conclude e
ci riporta alla mente le altre occasioni in cui i vini bianchi ci hanno fatto
cambiare idea sulla longevità e sulla qualità nell’affinamento in legno.
A tale
proposito, citando Giuliano Bellicoso (Presidente del Comitato Tecnico di
Degustazione della Confraternita), si potrebbe dire che: “Alla cieca nessuno
avrebbe dato venti anni ad alcuni di questi vini. E siamo sempre più convinti
che non esista un solo Trebbiano d’Abruzzo ma mille validissime esperienze
diverse, espressioni di un territorio unico e allo stesso tempo ricco di perle
da scoprire”.
Tirando
le somme, siamo ben lieti di aver avuto una piacevolissima sorpresa, mettendo
da parte i pregiudizi e le simpatie personali che talvolta ci spingono verso un’incauta
esterofilia o, peggio, sete di estremizzazioni finto rivoluzionarie.
Pierluigi Aielli
(Addetto Stampa CdG)
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